DA PRATO AL BANGLADESH… DI CLASSE

Si piange per un pugno di imprenditori del «made in Bangladesh» uccisi, ma non si fa parola sullo stillicidio di migliaia di schiavi e bambini che muoiono in quel genere di fabbriche.

Dopo la rivolta della «comunità cinese» di Prato, ecco, come per fatale contrappasso, la strage di imprenditori tessili italiani a Dhaka, capitale del «Made in Bangladesh»! Prato è centro tradizionale dell’industria tessile «Made in Italy», passato in larga parte alla rampante imprenditoria cinese, e dove già un disastroso incendio mortifero, avvenuto lo stesso anno 2013 di quello del Raza Plana in Bangladesh, anch’esso dovuto all’assenza di sicurezza a salvaguardia degli schiavi cinesi che lavoravano e dormivano nei loculi del soppalco di una delle fabbriche-dormitorio del Macrolotto-1, dove se ne contavano almeno 2000, la quasi la metà delle 5000 fabbriche «orientali», cosiddette dalla camera di commercio, e addette all’abbigliamento. La sarabanda mediatica non fa parola di ciò che succede realmente dietro le quinte di quella che è ormai diventata una semplice questione di ordine pubblico e per il fisco roba da tassare allegramente. Per gli schiavi che ci crepano… chi se ne frega! Stessa pantomima nella vicenda della strage all’aeroporto di Dhaka. Chi se ne frega degli schiavi sacrificati alla dinamica di un PIL del +6% all’anno, mentre in Italia si viaggia a zero! Infatti, nel 2013, un incendio nel palazzo di otto piani, il Raza Plana, provocò oltre 1000 morti e ancora più feriti. Nessuno vi ha fatto più niente. Vi avevano sede varie fabbriche tessili, i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi d’abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui Benetton, che negò la sua relazione al disastro ma tra le macerie e i morti furono trovate magliette col memorabile marchio «United Colors of Benetton». Si lavora tutti i giorni dall’alba al tramonto. I bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni costretti a lavorare in Bangladesh sono circa 1 milione secondo l’UNICEF, ma il numero in realtà sarebbe molto più alto, dato che il carattere nascosto del lavoro schiavile è una regola cinica e discreta in tutto il mondo, anche dove ipocritamente imperversa il legalitarismo, come in Occidente, specialmente in Italia dove si escogitano leggi contro l’induzione alla schiavitù e si condanna il caporalato, mentre questi fenomeni crescono e si estendono a tutte le filiere dell’agricoltura, dell’industria e dei trasporti.

In quel 2013, il Bangladesh aveva una popolazione di 156, 6 milioni di ab, di cui 15 milioni solo nella capitale Dhaka, e oggi siamo a circa 169 milioni di abitanti in un territorio stretto tra l’India e il Pakistan occidentale, da cui si è reso indipendente nel 1971, e con una densità abitativa tra le più alte al mondo, poggiando la sua economia neocoloniale, per l’80%, sull’export di tutta la filiera dell’abbigliamento: in soldoni, per le 5000 aziende ufficiali, un bel giro d’affari di 18 miliardollari annui, che nel 2020 si prevede che triplichi! Questo export darebbe lavoro, ufficialmente, almeno a tre milioni di persone, ma in realtà molte fabbriche, soprattutto di jeans, sono clandestine, come gli schiavi che ci lavorano, per l’80% donne. La cintura industriale di Dhaka, 40km a nord-est, è in continua espansione, trattandosi di una «zona alta», al riparo dalle frequenti alluvioni. In zona, fra l’altro è situata la località Zirani dove sorge un Centro Gesù Lavoratore, attivato da missionari del Pime (Pontificio Istituto Missioni estere) e suore dell’Immacolata, in una zona di 30kmq dove sorgono una quarantina di aziende, quasi tutte tessili, che sfornano prodotti destinati quasi totalmente all’esportazione: in alcune, ci lavorano dai 2mila ai 5mila dipendenti, maggiormente donne, e migliaia sono i bambini, costretti a cucire jeans per 18 ore, a 20 pence (poco più di 28 centesimi di euro!) al giorno, o, secondo altre fonti, non raggiungendo comunque i 37 $ al mese, contro i 150 del Made in China e i 100 di Indonesia e Messico. La ragione del fatto che tanto capitale made in Italy (come Benetton e probabilmente gli stessi imprenditori coinvolti nella strage di Dhaka) vada ad investire in Bangladesh è proprio l’esigenza di ossigenare di valore reale l’enorme bolla di capitale fittizio che si aggira ormai dalla crisi del 2007-2008 su tutti i continenti, esigenza che non si soddisfa più col prelievo di plusvalore relativo dato dall’innovazione tecnologica elevando la composizione organica del capitale e il saggio di profitto ma con l’enorme convenienza sul prezzo infimo e schiavo della forza-lavoro. Gli italiani, come gli altri imprenditori, anche di più grosso calibro, non vanno in India, Pakistan e Bangladesh per i costumi e per la bella miseria del paesaggio. Molti italiani vanno a farsi imprenditori in Bangladesh nonostante il fatto che sia tra i paesi più poveri del mondo. Ma cosa importa? Basta poco a comprare questo genere di schiavi da cui succhiare lavoro a gogò, dove la vita vale nulla.

Qui siamo nel cuore miserabile del supersfruttamento schiavista della specie umana più debole, quella dei bambini, e dove si tocca con mano a quanto poco servano le continue campagne di informazione, tanto meno le missionarie di santa madre chiesa, da sempre onnipresenti. Qui è l’inferno! Altro che paradiso della carità! Un giovane neo-assunto vi riceve una paga di circa 2mila taka al mese (20 €), per sei giorni di lavoro a settimana. Per risparmiare, gli operai vivono in baracche vicinissime all’azienda, con servizi igienici comuni ogni 50-60 persone e una cucina a gas utilizzata a turno. Di fatto, molti si ritrovano a passare la vita in fabbrica, in un ambiente profondamente degradato dal punto di vista sia sociale che ambientale.

 

(a cura di PonSinMor, dante lepore)

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